lunedì 5 gennaio 2015

LA CARTILAGINE SI RIPARA CON UN GEL

(New York, 14 gen)

Un gel tappabuchi per riparare le microfratture

Le cartilagini danneggiate da un trauma potranno essere riparate anche grazie a un gel. Ad annunciarlo è una sperimentazione condotta da ricercatori della prestigiosa Johns Hopkins University, i cui esiti sono stati pubblicati sulla rivista Science Translational Medicine.

Alla cartilagine danneggiata manca l'afflusso di sangue necessario a una potenziale autoriparazione. Nella gestione tradizionale dell'evento traumatico, la procedura prevede di operare delle microfratture nell'osso nei pressi delle lesioni per consentire alle cellule staminali di raggiungere l'obiettivo e intraprendere il processo riparativo. Si tratta tuttavia di un meccanismo che genera cicatrici evidenti.

Nello studio dell'università americana, invece, si fa ricorso a un gel realizzato in laboratorio che viene utilizzato per coprire i buchi creati dalle microfratture. Una volta colpito con luce laser, il gel va incontro a un processo di ispessimento che consente alle cellule staminali di operare su una sorta di impalcatura.


“Una volta che si è formato il tessuto il gel si dissolve da solo. Nei test sui pazienti questa tecnica ha avuto l'84 per cento di successo, mentre quella tradizionale supera di poco il 60", spiegano i ricercatori.

sabato 3 gennaio 2015

IL GOMITO DEL TENNISTA NON SI RISOLVE CON IL CORTISONE


I benefici dei cortisonici si limitano al breve periodo

Niente scorciatoie per il recupero dal gomito del tennista, o meglio epicondilite, in termini scientifici. Secondo una ricerca apparsa su The Lancet, che ha analizzato i risultati di 41 studi diversi su questa patologia che colpisce di solito fra i 35 e i 50 anni, le infiltrazioni di cortisone non sarebbero l'opzione terapeutica più indicata, perlomeno sul lungo periodo.

La ricerca, portata a termine da alcuni centri dello stato australiano del Queensland, ha paragonato la cura a base di cortisonici con l'intervento chirurgico o il semplice riposo. In sostanza, le iniezioni si sono dimostrate efficaci ne breve termine, eliminando il dolore e restituendo funzionalità all'articolazione danneggiata, ma questi effetti tendono ad affievolirsi sempre più con il passare del tempo.


Il coordinatore Bill Vincenzino (FISIOTERAPISTA) dell'Università del Queensland spiega: “gli effetti dei cortisonici sono stati migliori rispetto al non intervento, agli antinfiammatori non steroidei (Fans), alla fisioterapia e all’impiego di tutori o altre strutture di sostegno”.
Se il periodo di riferimento è superiore alle otto settimane, si mostra una riduzione del livello di efficacia della terapia. Dopo 6 mesi, gli altri rimedi come i Fans e la fisioterapia si rivelano migliori rispetto alle infiltrazioni di cortisonici, e lo stesso vale a distanza di un anno. Sul lungo periodo risultano più efficaci anche alcune terapie sperimentali come l'iniezione di plasma integrato con fattori di crescita, di acido ialuronico e la proloterapia. Quest'ultimo è un intervento che si basa sull'iniezione nell'articolazione di sostanze irritanti, come una sintesi di analgesici e zucchero, allo scopo di provocare un'infiammazione che dovrebbe produrre una reazione da parte dell'organismo e la successiva guarigione.


Lo studio conclude affermando comunque l'efficacia a breve termine dei cortisonici e mettendo in guardia i pazienti dall'utilizzo troppo superficiale degli altri trattamenti ancora in fase sperimentale. Alla fine, sembra che la scelta migliore sia sempre e comunque la fisioterapia e l'esercizio fisico che hanno un impatto sul dolore meno significativo, ma che producono risultati più solidi sul lungo periodo.

ARTRITE, DOLORE CAUSATO DA UN PROCESSO MOLECOLARE


Individuato il meccanismo che genera il dolore

Il dolore provocato dall'osteoartrite è scatenato da un preciso meccanismo molecolare che i ricercatori del Medical Center della Rush University, in collaborazione con la Northwestern University, hanno ora identificato.
Si tratta di una scoperta potenzialmente in grado di apportare novità decisive per il trattamento di questa patologia che pone il soggetto in una condizione di debilitazione e a volte di semi-invalidità.
L'autrice della ricerca Anne-Marie Malfait ha spiegato: “più che concentrarci sul perché le articolazioni e la cartilagine degenerano in artrosi ci siamo concentrati sul perché questa patologia riesca a causare dolore".
Docente di Biochimica e Medicina Interna presso la Rush, la prof.ssa Malfait ha firmato lo studio apparso su Pnas che analizza la genesi del dolore e le sue fluttuazioni nel tempo nei gangli delle radici dorsali, ovvero i nervi incaricati del trasporto dei segnali dagli organi sensoriali al cervello.
I ricercatori hanno scoperto che una chemochina nota come proteina fattore chemiotattico MCP-1/CCL2 e il suo recettore, vale a dire il recettore di chemiochina 2 (CCR2), sono fondamentali nello sviluppo del dolore associato alla gonartrosi, il tipo di artrosi che colpisce il ginocchio.

TALLODINIE PLANTARI

DEFINIZIONE

La tallodinia non è una malattia ma bensì un sintomo ed indica genericamente la presenza di dolore al tallone.
Le tallodinie plantari sono nella gran parte dei casi causate da una infiammazione cronica della fascia plantare nel punto in cui si inserisce al calcagno; tale punto viene denominato entesi e pertanto il processo infiammatorio prende nome di entesite o entesopatia.

Causa

La causa è in genere rappresentata da una anomala tensione della fascia plantare; tale condizione si osserva molto frequentemente in presenza di anomalie statiche del piede, più frequentemente nel piede cavo ma talvolta anche nelle anomale pronazioni. L’eccessiva tensione della fascia provoca col tempo, nel punto di inserzione all’osso la formazione di una caratteristica ossificazione (“entesofita” o più comunemente spina calcaneale); alla spina calcaneale viene comunemente attribuita l’origine del dolore mentre in realtà è chiaramente dimostrato come essa non dia luogo ad alcuna sintomatologia (esiste semplicemente una coincidenza tra la sede del dolore ed il punto in cui si sviluppa la spina calcaneale).
In casi più rari le tallodinie plantari sono causate da malattie infiammatorie (come le artriti sieronegative) mentre si osservano con una maggiore frequenza nelle patologie dismetaboliche (gotta, diabete, ipercolesterolemia, ...).
Un altro elemento causale sono le sollecitazioni eccessive riscontrabili in soggetti sovrappeso, che trascorrono molte ore in piedi o che praticano attività sportive.
Altre cause rare di tallodinia plantare sono patologie primitive dell’osso (neoplasie, fratture da durata, m. di Paget, …), patologie non infiammatorie delle parti molli, sindromi neurologiche (compressione dei rami calcaneali del nervo tibiale posteriore).

SINTOMATOLOGIA

Nelle tallodinie da entesopatia inserzionale il dolore è caratteristicamente presente all’inizio del movimento (i primi passi al mattino) e spesso migliora con l’uso salvo nuovamente peggiorare dopo prolungata stazione eretta. In genere l’aspetto del piede è normale (non tumefazione, termotatto normale) mentre è presente dolore alla palpazione dell’inserzione della fascia plantare e talvolta al suo terzo medio-prossimale.

Nelle forme secondarie a patologie reumatologiche spesso la sintomatologia è presente soprattutto a riposo ed è presente tumefazione e aumento del termotatto; ovviamente spesso in questi casi sono presenti altri sintomi (dolori vertebrali, al bacino, …).

Dal punto di vista degli esami strumentali l’esame rx grafico è utile per escludere patologie ossee; la presenza di spina calcaneale non serve in ogni caso per fare diagnosi di entesopatia. Esami più specifici (RMN, TC, scintigrafia) vanno eseguiti unicamente per escludere patologie diverse.

TRATTAMENTO

Nelle tallodinie da entesopatia calcaneale il primo provvedimento è la correzione dei fattori meccanici come la riduzione del peso ed il cambiamento di abitudini di vita (es. terreni di allenamento negli sportivi, calzature più ammortizzanti, riduzione generica delle sollecitazioni); inoltre è indispensabile il compenso o la correzione di eventuali alterazioni statiche come uso di ortesi per piede cavo o per piede pronato.
In alcuni casi buoni risultati possono essere ottenuti con l’uso di talloniere in silicone, che hanno lo scopo di assorbire i traumi e le vibrazioni, o alzando l’altezza del tacco per spostare il peso sull’avampiede.
Le terapie farmacologiche con antiinfiammatori risultano in genere poco efficaci per la scarsa vascolarizzazione dei tessuti interessati dall’infiammazione; risultati contrastanti si hanno anche con le terapie fisiche tradizionali (ultrasuonoterapia, laserterapia, ...).

Sicuramente efficace risulta invece il trattamento meccanico di stretching della fascia plantare e della muscolatura posteriore della gamba
che ha lo scopo di aumentare l’elasticità dei tessuti; tale effetto può essere anche ottenuto con ortesi notturne.
Notevole efficacia hanno invece le infiltrazioni locoregionali cortisoniche e i trattamenti con onde d’urto (ESW).

Nei casi ribelli al trattamento conservativo, che comunque in genere è sufficiente da solo a risolvere il problema purché prolungato per un periodo adeguato, può essere considerato il trattamento chirurgico che consiste nell’allungamento chirurgico della fascia e nell’esecuzione di perforazioni nel calcagno per ridurre l’edema osseo.
Occorre comunque sottolineare come anche l’intervento non risulta efficace se non vengono corrette eventuali alterazioni statiche preesistenti.