lunedì 29 dicembre 2014

ARTROSCOPIA D'ANCA, UNA CURA EFFICACE


Al posto di ricorrere alla protesi di metallo, bisogna prevenire il danno

Molti pazienti trascurano i primi dolori all’anca, rendendo difficile il successivo intervento.
Invece, grazie all'artroscopia d'anca, si ritarda o addirittura si evita il ricorso alla protesi. A condizione di intervenire prima che si sia sviluppata l'artrosi.

Le indicazioni all’artroscopia dell’anca sono molteplici e si rivolgono all’articolazione nel suo complesso. Si possono valutare sia le strutture articolari in senso stretto (il cosiddetto compartimento centrale), sia le strutture che avvolgono le articolazioni (compartimento periferico).

Si tratta infatti di una tecnica chirurgica mininvasiva in grado di correggere una condizione che predispone allo sviluppo dell'artrosi dell'anca e quindi alla successiva necessità di sostituire l'articolazione sofferente con un impianto protesico. Con tecnica artroscopica, tramite una sonda ottica introdotta nella cavità articolare dell'anca, si può infatti andare a correggere un difetto di curvatura e di accoppiamento meccanico tra il femore e il bacino. Si tratta della sindrome femoro-acetabolare.



Anatomia

Per chiarire occorre conoscere l'anatomia normale di questa grande articolazione dell'arto inferiore: si tratta di un accoppiamento tra una semisfera (la testa del femore) e una cavità a forma di scodella (l'acetabolo del bacino). Se le due curvature non corrispondono esattamente per raggio di curvatura ed estensione delle superfici si crea il conflitto: l'urto tra femore e acetabolo.

LA NEVRALGIA DEL TRIGEMINO


Qual è la tecnica migliore per il disturbo

Le molteplici problematiche legate alla terapia, cioè alla cura efficace e reale, della nevralgia del nervo trigemino, sono state ampiamente discusse e vengono anche messe in continua discussione oggigiorno.
È giusto e rispondente al metodo scientifico ricercare farmaci che assopiscono il dolore trigeminale, specie durante le intense e frequenti crisi. Pur tuttavia non si è ancora trovato un farmaco specifico per tale tremendo disturbo e che agisca primariamente su di esso per lunghi periodi di tempo, senza effetti collaterali. Attualmente vi sono farmaci antiepilettici, che, per la loro azione di sedazione dei nuclei di tutti i nervi cranici, agiscono di conseguenza anche su quello del trigemino, fanno diminuire o scomparite brevemente il dolore come loro effetto secondario e non primario sulle strutture trigeminali. 

In fase di accertamento della causa che provoca la nevralgia è giusto utilizzare tali farmaci, che possono frequentemente creare effetti collaterali, tipo reazioni allergiche, problemi secondari e marcati sulla funzionalità epatica, renale e sui globuli bianchi del midollo osseo, sino ad indurre il curante a sospenderli assai rapidamente perché più dannosi che utili. 


Quando si guardi con attenzione alla causa prima della nevralgia del trigemino, possiamo scoprire, mediante la risonanza magnetica ad alta definizione, tumori propri del nervo, es. neurinomi trigeminali, tumori delle meningi vicine al trigemino, così detti meningiomi paratrigeminali, tumori epidermidi, lipomi, teratomi, cisti aracnoidee e poche altre specie di neoplasia, sempre in una percentuale assai bassa, di poco superiore all’1 o al 2 per cento. 

Vi possono tuttavia essere delle placche dovute a forme demielinizzanti o alla vera sclerosi multipla, che, localizzate lungo il decorso delle fibre trigeminali dirette al nucleo del ponte o spinale,interrompono il normale ‘flusso’ neurale causando i dolori assai tipici alla nevralgia di cui andiamo adesso parlando. Il 98 per cento delle nevralgie è infatti scatenato dal contatto anomalo, stretto, pulsante, continuo, (detto CONFLITTO) avente l’ effetto di modificare la forma, lo spessore, il decorso ed, infine, più finemente, il rivestimento mielinico del nervo stesso. 
Questi eventi fanno sì che le fibre nervose vere e proprie di adagino l’una all’altra, venendo in stretto contatto (di conflitto cioè) tra di loro e generando le sinapsi efaptiche (fibra contro fibra, senza l’interposizione della mielina), incapaci di trasmettere un solo normale stimolo trigeminale, ma interpretando il tutto come DOLORE. Nascerà la ‘confusione’ nella regolare distribuzione degli impulsi nervosi nei vari gruppi di fibre, il passaggio di un impulso tra fibra e fibra, in pratica un ‘corto circuito’. Come il corto circuito tra due fili di corrente, il fenomeno elettrico è disastroso, causa la stilettata di dolore riferita alla faccia, magari più di una stilettata ma una loro ‘scarica tipo mitragliatrice, una crisi trigeminale insomma, costituita dal dolore più intenso che l’uomo possa avvertire, a tipo di colpo di pugnale, frecciate, vera e propria scossa elettrica con sensazione di calore indicibile, tutte modalità sensitivi abnormi, non fisiologiche. Queste inducono il paziente alla più assoluta e momentanea immobilità, a coprirsi o difendersi la zona ricompresa dal dolore (quasi a volerle dare sollievo), dal digrignare dei denti, dal non parlare, non deglutire, non profferire neanche una preghiera di aiuto e soccorso. Ma poi la crisi, lentamente, passa, lascia una ‘coda’ di dolore più accettabile, più tranquillo, ma, così vuole la patologia delle sinapsi efaptiche ed il loro malaugurato destino, la ripresa inaspettata degli attacchi è sempre pronta a ricomparire ed è alle porte. La storia della intensità e della arrogante insistenza del dolore sulle restanti funzioni del soggetto sono ben note, non solo a chi ne soffre e che, talora,preferisce togliersi il dono più grande cioè la vita stessa, ma anche ai famigliari ed alle persona che sono vicine al paziente e per il quale nulla, in senso assoluto, possono fare per alleviargli il dolore e /o per farlo sentire un poco meglio.


È a questo punto che deve intervenire, già eseguita una RMN specifica per il trigemino nelle modalità 3D ad alta definizione, es. FIESTA 3D, che aiutino l’opera URGENTE del microneurochirurgo dei nervi cranici, con particolare esperienza sul nervo trigemino. La RMN,, anche se non necessaria a scopo di diagnosi del conflitto, fornirà l'anatomia radiografica all'operatore, che saprà già prima dell'intervento quale è la sede esatta della situazione conflittuale, se trattasi di uno o più vasi, di arterie o di vene o di entrambi.


Il concetto è sempre quello della TNES (TRIGEMINAL NERVE EARLY SURGERY), cioè chirurgia precoce del nervo trigemino per eseguire la decompressione, in anestesia generale. Un piccolo foro dietro l’orecchio, l' impiego del microscopio operatorio e la rapida risoluzione del conflitto vascolare, ‘primum movens’, causa prima quindi della irritazione del nervo che porta poi alla sinapsi efaptica ed al dolore, costituisce oggi l'iter ideale da percorrere. Questo tipo di intervento avviene SENZA toccare il cervelletto, assai di lato alla nuca (come non previsto nella vecchia e superata via di accesso suboccipitale), secondo la personale tecnica E.L.I.S.A. (Estreme Lateral Iuxta Sigmoid Approach) dietro l’orecchio appunto, per raggiungere direttamente il nervo, distaccare l’arteria o le arterie e la vena in causa nel conflitto, porre la colla di fibrina che “attaccherà” le componenti vascolari alla dura madre vicina ed interponendo una intonacatura sottilissima e morbida come fiocchi di neve, costituita da lana di teflon o fascia muscolare tratta dalla ferita del/della paziente stessa, ad intonacare l'arteria a ridosso della dura madre tentoriale, LONTANA dal nervo.

LESIONI SLAP, DIAGNOSI E TRATTAMENTO

Il termine “lesione SLAP” (Superior Labrum, from Anterior to Posterior), coniato da Snyder nel 1990, descrive una lesione del quadrante superiore del labbro glenoideo con interessamento dell’ancora bicipitale. Sebbene i progressi delle tecniche artroscopiche abbiano permesso una maggiore comprensione dell’anatomia del labbro e della patomeccanica delle lesioni labrali, la diagnosi clinica rimane difficile. Per diagnosticare e gestire in modo appropriato le lesioni SLAP sono necessari un’anamnesi e un esame clinico accurati, appropriate tecniche di imaging e, in alcuni casi, l’artroscopia diagnostica. Se non gestite correttamente, le lesioni SLAP possono determinare un dolore cronico con una riduzione significativa della funzionalità.

In molti casi, le lesioni SLAP sono associate a lesione della cuffia dei rotatori o ad altre patologie labrali. 
  • Le lesioni SLAP di tipo I sono spesso associate ad una patologia della cuffia dei rotatori
  • le lesioni di tipo II a instabilità anteriore nel giovane e patologia della cuffia dei rotatori nell’anziano
  • le lesioni di tipo III e IV a instabilità traumatica.
I meccanismi patogenetici, sebbene ancora poco chiari, sono divisi in eventi traumatici acuti (ad esempio, una caduta con l’arto superiore esteso con conseguente impatto della testa omerale contro la porzione superiore del labbro e l’ancora bicipitale) e lesioni croniche ripetitive (ad esempio, attività overhead per l’ipotizzato meccanismo di “peel-back”). Molti autori hanno inoltre riportato un’associazione tra lesioni SLAP e instabilità gleno-omerale, sebbene la relazione causa-effetto non sia ancora definita.

La classificazione di Snyder et al. identifica quattro tipi di lesione SLAP, in base al grado di lesione. La lesione di tipo II è la più frequente, caratterizzata da un distacco dell’ancora bicipitale dalla glenoide, associato o meno a interessamento del labbro. Per la complessità delle lesioni labrali, Maffet et al. hanno ampliato la classificazione includendo le lesioni di tipo V, VI e VII; Morgan et al. ha sottoclassificato le lesioni di tipo II in 1) anteriori, 2) posteriori e 3) miste.

Una diagnosi accurata è fondamentale per impostare una adeguata gestione. L’anamnesi è fondamentale e dovrebbe individuare l’esatto meccanismo traumatico. I pazienti descrivono in genere un dolore vago, spesso riferiscono dei click o dei rumori articolari che aumentano con l’attività. Se la lesione interessa la porzione anteriore del complesso labbro/capsula, i pazienti riferiscono instabilità. Gli atleti overhead spesso riferiscono dolore durante la fase del lancio di late cocking.

Numerosi test sono stati descritti per determinare la presenza di una patologia labrale, inclusi il “active-compression test” (test di O’Brien), il “compression-rotation” o “grind test”, il “test di Speed”, il “clunk test”, il “crank test”, il “anterior slide test”, il “biceps load test”, il “biceps load test II” e altri test di provocazione del dolore. Purtroppo nessun test è abbastanza sensibile o specifico da determinare con accuratezza la presenza o l’assenza di una lesione SLAP. Di conseguenza, è fondamentale associare la sintomatologia del paziente con i risultati dei test clinici per la diagnosi accurata. Il “resisted supination external rotation test” e il “biceps load test II” sembrano essere i test più accurati per le lesioni SLAP di tipo II negli atleti overhead.

La radiografia è in genere normale in caso di lesione SLAP isolata, ma può evidenziare anomalie ossee in caso di patologie associate, ad esempio una lesione di Hill-Sachs
. La Risonanza Magnetica è considerata il gold standard per la diagnosi delle lesioni labrali, con mezzo di contrasto secondo alcuni autori.

Il trattamento conservativo è spesso fallimentare, soprattutto se presente una instabilità o una lesione della cuffia dei rotatori
. C’è però un sottogruppo di pazienti, in particolare quelli con lesione di tipi I, che sono candidati al trattamento conservativo. L’obiettivo del trattamento conservativo è ridurre il dolore, recuperare il ROM e la forza nei pazienti che non desiderano procedere ad una gestione chirurgica.

Dopo intervento chirurgico, la riabilitazione differisce in relazione alla tecnica utilizzata (debridement o riparazione) e alle eventuali patologie associate.

Dodson CC, Altchek DW. SLAP lesions: an update on recognition and treatment. J Orthop Sports Phys Ther. 2009 Feb;39(2):71-80.

Foto: LESIONI SLAP, DIAGNOSI E TRATTAMENTO

Il termine “lesione SLAP” (Superior Labrum, from Anterior to Posterior), coniato da Snyder nel 1990, descrive una lesione del quadrante superiore del labbro glenoideo con interessamento dell’ancora bicipitale. Sebbene i progressi delle tecniche artroscopiche abbiano permesso una maggiore comprensione dell’anatomia del labbro e della patomeccanica delle lesioni labrali, la diagnosi clinica rimane difficile. Per diagnosticare e gestire in modo appropriato le lesioni SLAP sono necessari un’anamnesi e un esame clinico accurati, appropriate tecniche di imaging e, in alcuni casi, l’artroscopia diagnostica. Se non gestite correttamente, le lesioni SLAP possono determinare un dolore cronico con una riduzione significativa della funzionalità.
In molti casi, le lesioni SLAP sono associate a lesione della cuffia dei rotatori o ad altre patologie labrali. Le lesioni SLAP di tipo I sono spesso associate ad una patologia della cuffia dei rotatori, le lesioni di tipo II a instabilità anteriore nel giovane e patologia della cuffia dei rotatori nell’anziano e, infine, le lesioni di tipo III e IV a instabilità traumatica. I meccanismi patogenetici, sebbene ancora poco chiari, sono divisi in eventi traumatici acuti (ad esempio, una caduta con l’arto superiore esteso con conseguente impatto della testa omerale contro la porzione superiore del labbro e l’ancora bicipitale) e lesioni croniche ripetitive (ad esempio, attività overhead per l’ipotizzato meccanismo di “peel-back”). Molti autori hanno inoltre riportato un’associazione tra lesioni SLAP e instabilità gleno-omerale, sebbene la relazione causa-effetto non sia ancora definita.
La classificazione di Snyder et al. identifica quattro tipi di lesione SLAP, in base al grado di lesione. La lesione di tipo II è la più frequente, caratterizzata da un distacco dell’ancora bicipitale dalla glenoide, associato o meno a interessamento del labbro. Per la complessità delle lesioni labrali, Maffet et al. hanno ampliato la classificazione includendo le lesioni di tipo V, VI e VII; Morgan et al. ha sottoclassificato le lesioni di tipo II in 1) anteriori, 2) posteriori e 3) miste.
Una diagnosi accurata è fondamentale per impostare una adeguata gestione. L’anamnesi è fondamentale e dovrebbe individuare l’esatto meccanismo traumatico. I pazienti descrivono in genere un dolore vago, spesso riferiscono dei click o dei rumori articolari che aumentano con l’attività. Se la lesione interessa la porzione anteriore del complesso labbro/capsula, i pazienti riferiscono instabilità. Gli atleti overhead spesso riferiscono dolore durante la fase del lancio di late cocking.
Numerosi test sono stati descritti per determinare la presenza di una patologia labrale, inclusi il “active-compression test” (test di O’Brien), il “compression-rotation” o “grind test”, il “test di Speed”, il “clunk test”, il “crank test”, il “anterior slide test”, il “biceps load test”, il “biceps load test II” e altri test di provocazione del dolore. Purtroppo nessun test è abbastanza sensibile o specifico da determinare con accuratezza la presenza o l’assenza di una lesione SLAP. Di conseguenza, è fondamentale associare la sintomatologia del paziente con i risultati dei test clinici per la diagnosi accurata. Il “resisted supination external rotation test” e il “biceps load test II” sembrano essere i test più accurati per le lesioni SLAP di tipo II negli atleti overhead.
La radiografia è in genere normale in caso di lesione SLAP isolata, ma può evidenziare anomalie ossee in caso di patologie associate, ad esempio una lesione di Hill-Sachs. La Risonanza Magnetica è considerata il gold standard per la diagnosi delle lesioni labrali, con mezzo di contrasto secondo alcuni autori.
Il trattamento conservativo è spesso fallimentare, soprattutto se presente una instabilità o una lesione della cuffia dei rotatori. C’è però un sottogruppo di pazienti, in particolare quelli con lesione di tipi I, che sono candidati al trattamento conservativo. L’obiettivo del trattamento conservativo è ridurre il dolore, recuperare il ROM e la forza nei pazienti che non desiderano procedere ad una gestione chirurgica.
Dopo intervento chirurgico, la riabilitazione differisce in relazione alla tecnica utilizzata (debridement o riparazione) e alle eventuali patologie associate.
Dodson CC, Altchek DW. SLAP lesions: an update on recognition and treatment. J Orthop Sports Phys Ther. 2009 Feb;39(2):71-80.

SALIRE LE SCALE, LA PALESTRA E' FAI DA TE

Gli “allergici” a bilancieri e pesi sono avvisati. Anche se non ne vogliono sapere nulla di palestre o piscine, potrebbero non avere scuse per tentare con metodi alternativi di ritrovare la forma. Salire le scale, ad esempio, consente di ottenere lo stesso risultato di faticose sedute di fitness. Parola dei ricercatori dell'Oregon State University che sull'American Journal of Health Promotion promuovono allenamenti alternativi e quotidiani. 

Secondo lo studio, che ha esaminato 6.000 persone, anche l'attività fisica non organizzata, quella fatta fuori da programmi e “schede”, ma compiendo lavori domestici o in giardino, optando per piccole passeggiate o preferendo le scale all'ascensore, hai suoi effetti, soprattutto per quella parte della popolazione che non ha tempo o voglia per fare di più. I volontari hanno indossato accelerometri, dispositivi che misurano il movimento – sono disponibili anche nei più moderni smartphone – per misurare l'attività fisica giornaliera. 


I risultati sono stati sorprendenti: circa metà dei partecipanti che svolgevano esercizi fisici di breve durata, anche pochi minuti al giorno, riusciva a raggiungere la soglia dei 30 minuti utile ad avere benefici su colesterolo, pressione alta, cuore, controllo del peso e sindrome metabolica. Tra coloro, invece, che si impegnavano in attività fisiche di maggiore durata, i risultati erano più modesti. Solo il 10% riusciva a raggiungere con costanza i 30 minuti giornalieri. Un paradosso che si spiega con una maggiore difficoltà a mantenere livelli di esercizio fisico omogenei più a lungo. Soprattutto tra persone non motivate. Ed invece una buona notizia in fatto di salute pubblica.

I ricercatori, infatti, sono convinti che incoraggiando le persone a compiere brevi, ma salutari esercizi si possano ottenere grandi risultati. Oltre a salire le scale a piedi, si può lasciare l’auto lontano dall'ufficio e fare l'ultimo tratto a piedi, lasciare il telefono in un'altra stanza costringendosi a fare un po' di movimento, approfittare degli spot in televisione per alzarsi dal divano oppure dopo cena uscire per buttare la spazzatura o accompagnare a spasso il cane. Anche le pulizie in garage o in giardino sono le attività contemplate nel set degli esercizi. "Molte persone sono convinte che se non riescono a fare attività fisica per almeno 30 minuti al giorno, allora tanto vale non farla del tutto - spiega Brad Cardinal, docente di fisica e scienza dello sport alla Oregon -, ma i nostri risultati sovvertono questa tesi e dimostrano come uno stile di vita attivo permetta di ottenere gli stessi, positivi riscontri di un approccio fisico più strutturato”.

http://www.healthpromotionjournal.com/

IL SOLE PREVIENE L'ARTRITE REUMATOIDE

Stendetevi al sole

È il suggerimento che emerge da una ricerca pubblicata su Annals of the Rheumatic Diseases riguardo l'artrite reumatoide, prevenibile attraverso un'esposizione adeguata ai raggi solari.

L'effetto, secondo i ricercatori, è stato studiato su migliaia di donne che hanno partecipato a due grandi analisi prospettiche, o meglio a due fasi della stessa grande ricerca, lo US Nurses' Health Study, la prima delle quali condotta fra il 1976 e il 2008 su un campione di 120 mila donne con età compresa fra i 30 e i 55 anni. La seconda fase dello studio ha invece riguardato 115 mila donne con età media compresa fra i 25 e i 42 anni seguite per un periodo che va dal 1989 al 2009.

Lo studio ha preso come parametro l'esposizione alla luce solare in vari periodi della vita, dalla nascita all'età di 15 anni. I ricercatori non si sono limitati a quantificare i livelli di esposizione in base alla sola appartenenza geografica, ma hanno adottato un tipo di misurazione più complessa – denominata Flusso UV-B – che prevede vari aspetti fra cui la latitudine, l'altitudine e la copertura nuvolosa nel corso delle varie stagioni. L'unità di misura viene espressa in Unità RB.


Nel periodo di studio analizzato, 1314 donne hanno sviluppato l'artrite reumatoide, ma stando ai dati le donne che avevano avuto un'esposizione maggiore ai raggi UVB mostravano anche un rischio di insorgenza della malattia inferiore rispetto alla media.
Fra le donne con livelli di esposizione alti si registrava una probabilità inferiore del 21 per cento di sviluppare l'artrite reumatoide. Si tratta di un dato relativo alla prima fase dello studio, mentre le stesse evidenze non sono state trovate nella seconda ricerca. Il motivo, secondo i ricercatori, risiederebbe nell'età media inferiore delle partecipanti. Gli scienziati suppongono che questa categoria di persone sia mediamente più informata riguardo i possibili danni derivanti dall'esposizione solare e quindi più propense ad utilizzare creme protettive, fattore positivo per la pelle ma che pregiudica i possibili vantaggi riguardo l'artrite reumatoide.


“Il nostro studio si aggiunge alle crescenti evidenze scientifiche che l’esposizione ai raggi UV-B è associata a un ridotto rischio di artrite reumatoide. I meccanismi non sono ancora stati compresi, ma potrebbero essere mediati dalla produzione cutanea di vitamina D e attenuati con l’uso di protezioni solari o dall’evitare l’esposizione solare”, spiegano i ricercatori.

LA SINDROME DEL TUNNEL CARPALE (Fisioterapia e trattamento chirurgico)

Introduzione

La Sindrome del Tunnel Carpale è la neuropatia più frequente ed è dovuta alla compressione del nervo mediano al polso nel suo passaggio attraverso il tunnel carpale.

Il tunnel carpale è un canale localizzato al polso formato dalle ossa carpali sulle quali è teso il legamento traverso del carpo, un nastro fibroso che costituisce il tetto del tunnel stesso,inserendosi, da un lato, sulle ossa scafoide e trapezio e dall'altro sul piriforme ed uncinato (ossa del carpo della mano). In questo "tunnel" passano strutture nervose (nervo mediano), vascolari e tendinee (tendini muscoli flessori delle dita).

Patogenesi


La patogenesi occupazionale sembra essere la causa più frequente per lo sviluppo della Sindrome del Tunnel Carpale. E' stata dimostrata un' associazione con i lavori ripetitivi, sia in presenza (rischio più elevato) che in assenza di applicazione di forza elevata. E' stato dimostrato che prolungati e/o ripetitivi movimenti di flesso-estensione del polso (in minor misura anche la flessione delle dita), provocano un aumento della pressione all'interno del tunnel carpale e che il ripetuto allungamento dei nervi e dei tendini che scorrono dentro il tunnel possono dar luogo ad una infiammazione che riduce le dimensioni del tunnel determinando la compressione del nervo mediano. 
Anche malattie sistemiche possono essere associate alla Sindrome del Tunnel Carpale (es. diabete mellito, artrite reumatoide, mixedema, amiloidosi), come pure situazioni fisiologiche (gravidanza, uso di contraccettivi orali, menopausa), traumi ( pregresse fratture del polso con deformità articolari), artriti e artrosi deformanti.

Sintomi


Nelle fasi iniziali della patologia la Sindrome del Tunnel Carpale si manifesta con formicolii, sensazione di intorpidimento o gonfiore alla mano, prevalenti alle prime tre dita della mano e in parte al quarto dito (vedi figura), soprattutto al mattino e/o durante la notte; successivamente compare dolore irradiatesi anche all'avambraccio, sintomi definiti "irritativi". Se la patologia si aggrava compaiono perdita di sensibilità alle dita, perdita di forza della mano, atrofia dell'eminenza thenar; sintomi "deficitari".

La Sindrome del Tunnel Carpale presenta una significativa associazione con alcune attività lavorative. Ne risultano infatti più spesso colpiti gli addetti al settore manifatturiero, elettronico, tessile, alimentare, calzaturiero, pellettiero, come pure gli addetti al confezionamento pacchi, cuochi di albergo, gli addetti ai pubblici esercizi. 

I pareri in proposito non sono univoci. Verosimilmente le cause sono molteplici: di notte il polso può rimanere a lungo iperflesso o iperesteso determinando così, come spiegato sopra, una maggiore pressione all'interno del tunnel carpale, con compressione del nervo mediano; la posizione sdraiata può ridistribuire i liquidi corporei con un aumento di questi agli arti superiori e quindi anche all'interno del tunnel carpale con conseguente aumento della pressione; il riposo stesso della mano non permetterebbe il drenaggio dei liquidi all'interno del tunnel carpale.

Gli studi effettuati a questo scopo non riportano risultati univoci e questo è facilmente comprensibile considerando le variabili in gioco ( diverso reclutamento, lavoro effettuato, criteri di diagnosi, etc).
Uno studio di prevalenza effettuato dal 1983 al 1985 in Olanda riporta un tasso del 3,4% per le donne e dello 0,6% per gli uomini, ma si stima che la STC sia presente in un ulteriore 5,8% delle donne non diagnosticata (De Krom et al. J Clin Epidemiol 1992;45:373-6). 
L'incidenza media annuale, calcolata nel periodo 1961-1980 in Minnesota è di 149 ogni 100.000 abitanti/anno per le donne e di 52 per gli uomini, tasso grezzo 99/100.000/anno (Stevens et al. Neurology 1988;38:134-8).
Uno studio effettuato nella zona senese dal 1991 al 1997 (Mondelli M. et al. Toscana Medica Luglio/Agosto 1999) riporta un tasso grezzo di incidenza di 326,2/100.000/anno (135,1 per i maschi, 506,9 per le donne), tasso standardizzato di 276,6/100.000/anno. Il rapporto medio delle incidenze F:M è di 3,8:1.
La decade più rappresentata per i entrambi i sessi è quella compresa fra 50 e 59 anni. L'incidenza della Sindrome del Tunnel Carpale è circa tre volte più elevata nella donna ed è variabile a seconda dell'attività lavorativa svolta, fino a 60 casi ogni 100 lavoratori in particolari attività, in circa il 70% dei casi è bilaterale, con prevalenza della mano dominante.

Diagnosi


Quando il paziente riferisce formicolio (parestesie) e/o dolore, spesso irradiato all'avambraccio, prevalentemente notturno o mattutino, la diagnosi di Sindrome del Tunnel Carpale è ritenuta la più probabile.
Tuttavia è importante far effettuare l'esame obiettivo neurologico e l'esame EMG/ENG (elettromiografico/elettroneurografico).
L'esame obiettivo neurologico valuta la forza, i riflessi osteotendinei , la sensibilità e può avvalersi di tests clinici.
I più conosciuti sono il test di Tinel e di Phalen. Nel primo si percuote con il martellino da riflessi sopra il tunnel carpale, il paziente dovrebbe avvertire una scossa nel territorio di innervazione del nervo mediano; nel secondo si flette o si estende la mano sull'avambraccio per un minuto, i pazienti dovrebbero avvertire l'insorgenza di formicolii o il peggioramento di questi. Comunque i tests possono dar luogo molto frequentemente a risposte false negative o false positive e pertanto sarebbe meglio non fidarsi troppo del risultato ottenuto.
E' quindi consigliabile effettuare sempre un esame EMG/ENG.
L'esame ENG elettroneurografico viene eseguito con elettrodi di superficie e piccole scosse elettriche e permette di valutare la velocità sensitiva (la prima ad essere alterata nella Sindrome del Tunnel Carpale), la velocità motoria, la latenza e l'ampiezza delle risposte sensitive e motorie del nervo, elicitate dalla scossa elettrica. 


Tuttavia per valutare adeguatamente la gravità della sindrome e per escludere compromissioni nervose a differenti livelli (ad esempio compressione cervicale) è necessario il completamento con esame EMG, eseguito utilizzando piccoli aghi che registrano l'attività muscolare. 


Radicolopatie cervicali, plessopatie brachiali, polineuropatie in genere, possono frequentemente dar origine a sintomi che simulano una Sindrome del Tunnel Carpale e che solo un esame EMG/ENG correttamente ed interamente eseguito possono differenziare.
Quest'ultimo permette anche di classificare la gravità del danno (come riportato nella pagine principale). In Italia la Sindrome del Tunnel Carpale viene classificata in sei livelli di gravità: 1° negativo = solo segni clinici con esame negativo; 2° minima; 3° lieve; 4° media; 5° grave; 6° estrema atrofia eminenza thenar).
Da ricordare che in alcuni pazienti la Sindrome del Tunnel Carpale può essere molto fastidiosa anche al 1° grado di malattia, con esame EMG/ENG negativo. La diagnosi di Sindrome del Tunnel Carpale non è pertanto generalmente difficile, se l'iter diagnostico è completo.

Solitamente in assenza di trattamento o di cambiamento dell'attività lavorativa, la Sindrome del Tunnel Carpale tende ad aggravarsi negli anni. Tuttavia in alcuni pazienti rimane stazionaria nel tempo. L'esperienza clinica dimostra che durante i periodi freddi la sintomatologia si esacerba e migliora durante i periodi caldi, pur non modificandosi la gravità della patologia.

Terapia


La terapia della Sindrome del Tunnel Carpale può essere conservativa o chirurgica. Secondo le indicazioni dell'American Accademy of Neurology (AAN,1993), il trattamento conservativo è da tentare se non ci sono deficit della forza o della sensibilità o severe anomalie all'esame EMG/ENG. E' importante, comunque, non operare il paziente troppo tardi, in quanto possono permanere esiti; il paziente in terapia conservativa deve pertanto essere controllato.

Conservativa

Talvolta è sufficiente cambiare modalità di svolgimento dell'attività lavorativa per avere un miglioramento. Si avvale di: ultrasuoni, ionoforesi, laser, che possono migliorare i sintomi , ma non agiscono sulla causa della Sindrome (ripetute e prolungate flesso-estensioni del polso); farmaci antinfiammatori non steroidei, hanno scarsa efficacia, farmaci steroidei, hanno efficacia limitata nel tempo; infiltrazioni efficaci sui sintomi, ma con due grossi “effetti collaterali”: un dimostrato danno fibrotico del nervo e il rischio che il paziente posticipi troppo l'intervento con esiti permanenti; stecche per il polso (splint) efficaci, ma poco tollerate, solitamente usate solo di notte e che pertanto non incidono sulla causa della sindrome. Una novità giunta da poco sul mercato è uno speciale polsino. Nelle fasi fino a lieve-media gravità ha dimostrato sicura efficacia se indossato giorno e notte per 15 giorni, anche durante l'attività lavorativa. E' infatti ben tollerato, non limitando l'uso della mano e del pollice ed è efficace in quanto limita le ripetute flesso-estensioni del polso responsabili, nella maggior parte dei casi, della Sindrome del Tunnel Carpale . Efficace anche nella prevenzione della Sindrome del Tunnel Carpale e nella terapia e prevenzione delle tendiniti del polso.
Poiché limita efficacemente la flesso-estensione del polso, senza bloccarlo e permette il normale uso della mano (anche opposizione del pollice) per cui può comodamente essere utilizzato giorno e notte , influendo così sulla causa della patologia


Chirurgica

L'intervento prevede il taglio del legamento traverso del carpo (tetto del tunnel carpale), talvolta associato a una neurolisi. Può essere effettuato con tecnica tradizionale o endoscopica, in anestesia locale o brachiale, mediamente con convalescenza di circa venti giorni, un po' più breve se effettuato in via endoscopica, tuttavia non sembrano esserci criteri univoci per scegliere l'uno o l'altro tipo di intervento. La convalescenza è solitamente compresa fra 2 e 4 settimane.

POCO OSSIGENO TRA LE CAUSE DELL'INFIAMMAZIONE ARTICOLARE


Nuove prospettive terapeutiche per l’artrite idiopatica giovanile

Potrebbe essere l'ossigeno la chiave di volta per scardinare i meccanismi di innesco dell'artrite idiopatica giovanile. È il risultato di uno studio - coordinato dalla dottoressa Maria Carla Bosco e dal dottor Luigi Varesio, direttore del Laboratorio di Biologia Molecolare dell’Istituto Giannina Gaslini di Genova - che apre importanti prospettive terapeutiche per l’artrite idiopatica giovanile.

Alcune cellule all’interno delle articolazioni infiammate potrebbero diventare il bersaglio di una terapia mirata, capace di contrastare il processo infiammatorio. Lo studio pone nuove basi sulle quali sviluppare strategie terapeutiche da portare al letto del paziente. 


“L’artrite idiopatica giovanile è la più comune malattia reumatica cronica del bambino. Questa malattia colpisce circa un bambino su mille ed è una delle cause principali di disabilità e deformità acquisita in età pediatrica dovute ad anomalie nella crescita e nello sviluppo dello scheletro, secondarie a un processo infiammatorio cronico che può portare alla distruzione delle articolazioni. La terapia e la prognosi sono migliorate negli ultimi anni ma rimangono ancora molti problemi da risolvere: solo il 40-60% dei pazienti va incontro a remissione totale o parziale. Diventa, quindi, un obiettivo primario identificare nuovi bersagli terapeutici da sfruttare per il trattamento di questa malattia”, spiega la dottoressa Maria Carla Bosco.
La dottoressa Maria Carla Bosco e il dottor Luigi Varesio, in collaborazione con il Dipartimento di Pediatria ad indirizzo Reumatologico del Gaslini, diretto dal professor Alberto Martini e il Dipartimento di Medicina e Oncologia Sperimentale del CERMS di Torino diretto dalla professoressa Mirella Giovarelli, hanno dimostrato che la ridotta concentrazione di ossigeno (ipossia) presente nelle articolazioni dei bambini affetti da artrite altera la risposta immunitaria delle cellule dendritiche (globuli bianchi che infiltrano l’articolazione durante il processo infiammatorio) e rappresenta un fattore essenziale per lo sviluppo e la progressione della malattia.
Di particolare rilevanza è stata la scoperta della presenza di una proteina (TREM-1) ad elevata attività pro-infiammatoria sulle cellule dendritiche in condizioni di carenza di ossigeno, sia in esperimenti in vitro che in vivo nelle articolazioni dei pazienti: è stato dimostrato come questa molecola amplifichi l’attività pro-infiammatoria di queste cellule giocando un ruolo critico nella cronicizzazione del processo infiammatorio e rappresenti quindi un potenziale bersaglio terapeutico per contrastare la progressione dell’artrite.


La ricerca è stata pubblicata dalla prestigiosa rivista Blood, la quale ha anche dedicato ad essa un approfondimento per sottolineare l’importanza della scoperta. Questi risultati sono stati ottenuti grazie alle moderna impostazione del laboratorio di Biologia Molecolare - promossa dal Direttore Scientifico del Gaslini, prof. Lorenzo Moretta - che ha sviluppato al suo interno sia la biologia molecolare classica che le tecnologie del futuro, tra le quali una nuova tecnologia di screening molecolare (la tecnologia del “microarray”) e un gruppo bioinformatico in grado di interpretare questi risultati.